“Quando sono triste, l’unica cosa che mi fa stare bene è mangiare. Se guardo la tv o se mi annoio, vado in cucina e apro il frigo. Quando sono in ansia o in condizioni di stress, soltanto il cioccolato può calmarmi”.
Le parole di Stefania, avvocato, normopeso di 36 anni, sono le stesse di Giulio 40 anni, obeso e anche di Marco che di recente ha perso il lavoro e reagisce alle sue frustrazioni divorando la dispensa di casa.
Stefania, Giulio e Marco, hanno un rapporto controverso con il cibo, che li spinge a cercare negli alimenti sensazioni di benessere, tranquillità e serenità. Le loro storie raccontano quella teoria emotiva che venne proposta dallo psicologo statunitense Stanley Schachter.
Ma cos’è la teoria emotiva? e come si collega all’obesità?
Schachter sostiene che le persone obese, oltre ad essere attirate da stimoli esterni più dei non obesi, mangino di più in risposta a stimoli emotivi come ansia, paura, depressione e noia.
La teoria emotiva si basa proprio sul fatto che alcune persone interpretano la sensazione emotiva come un senso di vuoto simile alla fame, dove il cibo viene usato come sostituto della gratificazione emotiva.
Ovviamente più che il problema della quantità di cibo che mangia una persona obesa, vi è il problema della qualità, infatti i cibi prediletti sono quasi sempre carboidrati e grassi. In una cultura ossessionata dalla magrezza, in cui i prototipi da prendere come esempio sono il calciatore e la modella, la persona obesa è sottoposta ad un continuo stato di pressione e vergogna, che può condurre ad una minore autostima. I sentimenti derivanti da queste condizioni conducono la persona a ricercare una facile gratificazione nel cibo.
In che modo il rapporto tra cibo ed emozione può condurre all’obesità?
Il rapporto tra cibo ed emozione è un rapporto che nasce e cresce insieme a noi. A cominciare dalla vita intrauterina per poi prendere forma nella prima infanzia attraverso il contatto con il seno materno, accompagnandoci per il resto della nostra esistenza. A maggior ragione questo rapporto può essere influenzato dalle figure genitoriali. Se il genitore non è in grado di fornire al bambino un giusto rapporto tra fame e gratificazione emotiva, quest’ultimo può fraintendere le sue sensazioni fisiche e imparare ad abusare del cibo per calmare le tensioni e sopportare le difficoltà interpersonali. La risposta dei genitori ai bisogni del figlio è di fondamentale importanza in questo caso. Il neonato impara a distinguere attraverso l’esperienza i diversi motivi di una sensazione di malessere (fame, sete, sonno, bisogno di contatto, ecc.). Se la risposta che il genitore dà al bambino è sempre la stessa per qualsiasi segnale di malessere (ovvero il cibo), il bambino imparerà a rispondere con l’assunzione di cibo a ogni futura esperienza di disagio.
L’unico modo per uscire da questa routine devastante è la motivazione al cambiamento, bisogna seguire percorsi mirati e personalizzati con professionisti esperti.
Il cibo non serve solo a nutrirsi, ma attorno ad esso si struttura il mondo relazionale del bambino. Pensateci, il cibo è il primo mezzo di rapporto interpersonale attraverso il quale il bambino riceve cura, amore e protezione. Per questo assume il valore simbolico di amore. Se la madre è in grado di cogliere i reali bisogni del figlio, riuscirà a soddisfarne le reali richieste di fame e così il bambino riuscirà a strutturarsi un proprio ciclo di fame/sazietà. Viceversa se la madre utilizza il cibo come meccanismo consolatorio, come premio o punizione, il bambino crescerà con un’organizzazione alimentare confusa e con la tendenza a rispondere con il cibo a qualsiasi stato di disagio o frustrazione.
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